In occasione del decimo anniversario del tragico naufragio di Lampedusa nel quale, il 3 ottobre 2013, hanno perso la vita 368 persone migranti, data divenuta successivamente Giornata della Memoria e dell’Accoglienza, non possiamo chiudere gli occhi davanti alle morti che continuano a perpetrarsi.
Nel mondo, sono circa 110 milioni le persone a non avere altra alternativa se non quella di abbandonare la propria terra per fuggire da guerre, persecuzioni, violenze, violazioni dei diritti umani, povertà estrema e danni causati dal cambiamento climatico che hanno reso molte aree inabitabili.
La maggior parte, circa 62 milioni di persone, sono sfollati all’interno del Paese di appartenenza, altre, circa 25 milioni di persone, sono rifugiati che hanno attraversato il confine in cerca di sicurezza, spesso in Paesi limitrofi che a loro volta devono fronteggiare problemi di povertà e instabilità politica.
In questa cornice globale si inserisce il Mar Mediterraneo. I primi nove mesi del 2023 sono stati drammatici per quanto riguarda i movimenti migratori. Nulla sembra essere cambiato rispetto a 10 anni fa, soltanto la disumana conta delle persone che hanno perso la vita in mare e che aumenta giorno dopo giorno. Niente è stato fatto dalle istituzioni nazionali e internazionali affinché le persone in fuga dai drammi vissuti nei Paesi di provenienza possano accedere a canali sicuri e legali di migrazione. E così, ancora oggi, sono costretti ad affidarsi ai trafficanti di esseri umani mettendo a rischio la propria vita.
In occasione del MED9 di Malta, al quale hanno preso parte Francia, Spagna, Portogallo, Italia, Malta, Grecia, Cipro, Slovenia e Croazia, i leaders hanno sottolineato l’importanza di un approccio congiunto a livello europeo attraverso adeguate modifiche al Pact on Migration on Asylum affinché possano essere garantiti la tutela dei diritti fondamentali e degli obblighi internazionali.
Il Mediterraneo altro non è che il riflesso delle politiche migratorie adottate dall’Europa e delle problematiche che affliggono il continente africano. La storia di ogni persona migrante che tenta di solcare questo mare racchiude i segni di ciò che avviene nel Paese di provenienza. Del conflitto che sta dilaniando il Sudan a quello in Congo, dai combattimenti in Niger a quelli in Somalia, dalle violenze in Burkina Faso e in Mali. In altri territori, invece, la popolazione locale deve fare i conti con l’instabilità politica, la militarizzazione e la presenza di organizzazioni armate di stampo terroristico e delle loro minacce, delle violenze e dei rapimenti sempre più diffusi nella regione sub-sahariana. In questi contesti il tasso di povertà è elevatissimo. A tutto ciò si aggiungono siccità e fenomeni climatici estremi e lo sfruttamento dei territori per le risorse presenti nel sottosuolo.
Anche l’arrivo di un numero sempre più elevato di bambini e bambine sulle coste europee (a Lampedusa sono sbarcati 11.650 minori non accompagnati tra i quali alcuni di soli tre anni) è specchio di ciò che sono costretti a subire. Nelle aree colpite dai conflitti, in Africa, troppe sono le storie di uccisioni, mutilazioni e violenze sessuali. Diffuso è il fenomeno dei bambini soldato, soltanto in Africa occidentale e centrale, dal 2016, se ne contano oltre 21.000.
Molti di loro vengono sfruttati anche nell’estrazione di oro e pietre preziose, del coltan, del cobalto e dei minerali con i quali sono alimentate le batterie di smartphone, pc e automobili, a contatto con sostanze tossiche e pericolose.
Sulle immagini simbolo dei bambini che hanno perso la vita nel Mediterraneo che hanno fatto il giro del mondo, tra tutte quelle del piccolo siriano Alan Kurdi, l’unanime commozione e le parole non si sono trasformate in fatti. Oggi i minori continuano a morire in mare, a volte soli, altre insieme alla madre o al padre, e nulla sembra essere cambiato da quel 3 ottobre 2013 quando tutti ripetevano “mai più”. Quell’episodio rappresenta anche il momento in cui la famiglia Catrambone decise di non restare a guardare, e volle mettersi in gioco per salvare la vita di coloro che tentavano la traversata. Nasceva così il MOAS- Migrant Offshore Aid Station, che dal 2014 al 2017 ha portato in salvo oltre 40.000 persone migranti, tra Mediterraneo e mar Egeo.
Oggi non siamo più in mare, ma continuiamo a ribadire l’importanza di istituire una missione SAR a livello europeo e una politica UE comune ed equa, fondata sulla solidarietà. È necessario inoltre adottare canali migratori sicuri e legali che possano evitare alle persone costrette a fuggire di finire nelle mani dei trafficanti e di subire le terribili violenze che si consumano durante il viaggio, all’interno dei centri libici e il rischio delle rotte del Mediterraneo.
Considerazioni finali
L’implementazione di #VieSicureELegali è una valida soluzione per salvare tante vite umane nel braccio di mare che divide l’Africa dall’Europa – e non solo. Finché ciò non avverrà, ogni anno continueremo a fare retorica commemorando qualcosa che ogni giorno continua a ripetersi nell’indifferenza e nell’immobilità delle scelte adottate per la gestione della questione migratoria.
Scopri di più sulla campagna di MOAS e firma il nostro appello: https://www.moas.eu/it/vie-sicure-e-legali/.
Se sei interessato al lavoro di MOAS e dei nostri partner, seguici sui social media, iscriviti alla nostra newsletter e condividi i nostri contenuti. Puoi anche contattarci in qualsiasi momento tramite [email protected]. Unisciti a noi e dona ciò che puoi su: https://www.moas.eu/it/dona/.