Da quando nel 2015 abbiamo iniziato ad interessarci dei rifugiati Rohingya abbiamo ascoltato le loro testimonianze, prima in Myanmar e, successivamente, in Bangladesh. I Rohingya, una minoranza apolide musulmana, sono oggetto di persecuzione dagli anni ’70, quando intere famiglie sono state costrette ad abbandonare il Myanmar per sfuggire alle continue limitazioni della libertà di movimento, all’impossibilità di accedere al sistema sanitario e scolastico, alla marginalizzazione, alle violenze e, frequentemente, a vere e proprie repressioni armate. Nonostante i Rohingya abbiano vissuto per secoli nella regione del Rakhine settentrionale, il governo birmano non riconosce loro né il diritto di cittadinanza, né altri diritti umani fondamentali, una situazione istituzionalizzata attraverso una legge emanata nel 1982, la Citizenship Law. Un assetto legislativo che ha generato un flusso migratorio verso i Paesi circostanti e soprattutto verso il Bangladesh. Nel 2017, con l’intensificarsi delle azioni violente condotte dai militari birmani e da una parte della popolazione civile, i Rohingya sono stati costretti a fuggire in condizioni pericolose generando una nuova ondata migratoria dal Myanmar al Bangladesh. Basta mettere a confronto le mappe satellitari attuali con quelle di qualche anno fa per comprendere la portata della crescita dei campi profughi in Bangladesh (dall’espansione di Kutupalong alla creazione di campi temporanei come quello di Unchiprang). All’interno dei campi profughi, convivono diverse generazioni di rifugiati, coloro i quali sono appena arrivati, coloro i quali sono arrivati da circa 30 anni e coloro i quali sono nati e cresciuti all’interno dei campi.
Salim è un giovane ragazzo nato e cresciuto nel mega campo di Kutupalong, dove vengono ospitate 600.000 persone, da genitori rifugiati fuggiti dal Myanmar. La sua forte testimonianza ci ricorda che vivere in un campo è come non esistere, vivere in una perenne condizione di estrema precarietà e di discriminazione, non abbandonare la speranza di poter studiare, lavorare e di poter essere curati. Salim mi racconta che a causa di inadeguati trattamenti medici ha persino perso la madre. Continua a raccontarmi che quella dei rifugiati è una vita molto difficile, sembra di trovarsi in una prigione a cielo aperto. Salim e tanti altri giovani cresciuti in questo contesto sognano ad occhi aperti la loro vita fuori dal campo, quando un giorno avranno riconosciuta la loro cittadinanza e potranno tornare nel loro Paese, ma nessuno di loro potrà mai sapere quando questa prigione sarà soltanto un triste e doloroso ricordo. Salim collabora con MOAS ricoprendo diverse mansioni. Al momento è impegnato, in funzione di trainer, nel Flood Rescue Training organizzato da MOAS per fornire competenze affinché Rohingya e bengalesi possano fronteggiare le emergenze della stagione monsonica.
In questa complicata situazione, Salim si ritiene fortunato perché ha ricevuto lo status di rifugiato a differenza di coloro i quali che, arrivati negli ultimi anni, vengono considerati “displaced people” non ottenendo alcun ulteriore riconoscimento. Il riconoscimento della cittadinanza è il filo conduttore che lega Salim agli altri ragazzi.
Secondo i dati forniti dall’UNHCR a maggio 2019, oltre 910.000 rifugiati Rohingya vivono nei campi profughi di Cox’s Bazar, nel Bangladesh. Il 55% sono bambini, il 42% adulti e il 3% anziani. In tutto il mondo milioni di persone si trovano in una situazione di apolidia; nel 2017 circa 70 paesi hanno dichiarato un totale di 3,9 milioni di persone apolidi. Secondo le stime dell’UNHCR questa cifra, difficilmente determinabile per via della natura stessa dell’apolidia, potrebbe essere fino a tre volte più elevato.
Il 4 novembre 2014, l’UNHCR ha lanciato la campagna #IBelong per porre fine all’apolidia entro il 2024, un obiettivo alquanto ambizioso da raggiungere in poco più di quattro anni. Come dichiarato dalla campagna “l’apolidia è un problema creato dall’essere umano e relativamente facile da risolvere e prevenire. Con la necessaria volontà politica e il sostegno pubblico, milioni di persone in tutto il mondo potrebbero acquisire la nazionalità e impedire che i propri figli nascano apolidi. La campagna #IBelong è supportata da un piano d’azione globale che definisce misure concrete che consentano agli Stati di risolvere il problema. Con l’acquisizione della nazionalità, milioni di persone apolidi in tutto il mondo potrebbero ottenere pieno accesso ai propri diritti umani e godere di un senso di appartenenza alla propria comunità”.
Regina Catrambone
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